...a piedi nudi nel parco

21 luglio 2008

Un cd di altri tempi

Oggi ho preso in pieno un bellissimo acquazzone. Di quelli con i goccioloni grassi, che fanno il classico ploc. Quelli che arrivano accompagnati da un bel sole, quando la gente esce di casa senza l’ombrello e appena scroscia li vedi tutti correre, coperti dal giornale che portavano in mano, a cercare riparo sotto una tettoia o dentro a un bar.
Ovviamente sono già tutta da strizzare quando dribblo qualche pozzanghera per finire dritta sotto la tenda di un negozio della via Emilia. La vetrina pubblicizza vecchie musicassette a solo un euro e l’occhio mi cade sugli Spandau Ballet e Cochi e Renato. Rifletto su come il prezzo sia più che onesto: neanche mi funziona più il mio vecchio mangiacassette! Al lato in alto sulla vetrina, attaccata alla buona, una stampa invita i clienti ad entrare per testare il proprio stato di stress. Incuriosita mi affaccio alla porta e noto un marchingegno chiuso dentro una valigetta blu. Non so quale sia la reale intenzione di quel test ma il messaggio subliminale che lancia è, in modo molto originale, legato alla musica. Entro senza fare il test e per dissimulare un’attesa che può prolungarsi per chissà quanto, comincio a curiosare tra vecchi vinili e 45 giri. Il negozio praticamente finisce lì: quattro passi di lunghezza per tre di larghezza ed ovviamente sono l’unica cliente. Se mi si fosse materializzato John Cusack, alias commesso di Alta fedeltà, avrei potuto svoltare l’attesa. Ma un ipotetico Nick Hornby trapiantato nell’Emilia riserba per me un ragazzetto occhialuto seduto su un trespolo che punta estatico un monitor e all’entrata, a lanciare odi alla pioggia, un’anziana signora con i capelli corti ricci color carota su cui spiccano enormi orecchini turchese a clip. Apprezzo la genuinità del negozio non potendo apprezzare altro.
Il ragazzetto d’un tratto mette su un disco. Riconosco quella canzone senza conoscerla. L’ho sentita un giorno, in un momento apparentemente insignificante. Ero in macchina ed era sera tardi. So bene a chi appartiene nei miei ricordi. Mi piace tanto quella canzone. Così allegra e piena di ritmo che mi verrebbe voglia di mettermi a saltellare per il negozio con la nonnina, battendo le mani a tempo. Così mi volto verso il ragazzetto che mi guarda e sorride. Non so come faccia a sorridermi, visto che dalla posizione in cui sono mi rivolge le spalle, e potrei solo vederlo riflesso sul monitor, semmai. Ma sento la necessità di romanzare quel momento. È una necessità che sento sempre quando la vita sembra lanciarmi dei segnali indecifrabili. Appunto: indecifrabili.
Vado dal ragazzetto, con aria anche un po’ fiera a dimostrazione del fatto che il mio essere lì, in quel momento, non è pura casualità legata al diluvio che si scatena oltre la valigetta antistress. Gli chiedo se ha quel cd, quello di cui ora ricordo con esattezza il titolo perché d’un tratto il momento apparentemente insignificante mi ritorna alla memoria in tutti i suo più umili dettagli. Dopo l’adeguato momento di suspense lui mischia le palline ed estrae il bussolotto: c’è l’ultima copia, rimasta lì in attesa che venissi a prendermela.

Non so perchè l'ho raccontato ... forse non c’è niente di fiabesco in tutto questo ed i segnali che leggo sono solo disegni nelle caverne dell’era della preistoria. Non è un messaggio in una bottiglia che qualcuno mi ha destinato, lanciandolo in mare. Né una risposta alle mie tante domande insolute. Penso che se il ragazzetto avesse messo su un’altra canzone avrei semplicemente comprato un altro cd. O magari avrei decriptato lo stesso segnale indecifrabile anche se l’anziana donna si fosse messa a cantare Bella Ciao.
È che a volte ciò che vivo prende la forma dei miei desideri ed interpeto come segni quelli che oltrepassando un confine labile sono già diventati sogni.
Dopotutto ci vuole poco, basta cambiare una lettera.

02 luglio 2008

Misure

Dopo un periodo relativamente lungo di assenza eccomi di nuovo qui. Più o meno qui. In un’altra casa di un’altra piccola città che sto cercando di conoscere. Anche la casa è piccola, varata al mio ingresso come casa dei LEGO per via del colore e della forma dei mobili che ricorda i mattoncini della Mattel. Per non parlare del metaforico senso di incastro che contraddistingue la vita in un monolocale. Ma reduce da un mese passato in hotel dove ho cambiato quattro stanze, due piani e la reciproca posizione del letto e dell’armadio, qui di spazio ne ho da vendere. Si fa per dire, ovvio. Che servita e riverita, tra moquette rossa e colazioni pantagrueliche sento un po’ la mancanza di quella spaziosa hall con il tipo di turno alla reception che mi preparava la camomilla.
Ma tant’è. Addento il mio piatto di pasta scondita, e scrivo.
Dal mio balcone si gode un bellissimo tramonto. Anche se oggi il sole è un lunga strisciata rossa in dissolvenza per via di qualche nuvola superstite di un primo temporale estivo. Respiro un po’ d’aria fresca, stravaccata sulla sedia con i pedi all’aria. Mi tocca comunque fare i conti con le zanzare che dal Lungo Crostolo vengono in visita qui. Gli donerei volentieri una sacchetta di sangue se mi lasciassero scrivere in pace senza dovermi fermare ogni tre secondi ad applaudirle. Ne ho fatta fuori un’altra. Tiè. Ma d’altronde è mercoledì. E qui a Reggio Emilia il mercoledì si esce. Io faccio l’anticonformista; certe regole non mi sono mai piaciute. E resto sul mio balcone, al sesto piano di questa vivace palazzina, tra i tetti delle case con le tegole e i camini, qualche albero, le prime luci che si accendono, il ponte di Calatrava e la mia vicina di casa che entra ed esce dal suo balcone … e praticamente anche dal mio, visto che sono attaccati! Che movimento … tra un treno che passa, il vociare della gente e la musica che suona a piazza Prampolini. Vivo ad un passo dal centro, devo solo attraversare la strada e la parte più carina della città è alla mia portata. Qui è tutto a misura d’uomo. Giro con la mia bicicletta e percorro la città in lungo e in largo. Tutto mi sembra diverso e il sistema spazio-tempo devo ancora imparare a gestirlo. E così anche i reggiani. Con il loro ritmi lenti e i modi calmi e pacati che a volte innervosiscono e altre volte spiazzano. Come la cassiera del bar che quando mi fa il conto della colazione sembra parlare con la voce registrata di una segreteria telefonica. Le porgo i soldi dopo il bip ma storco il naso di fronte al tono un po’ freddo sebbene estremamente gentile. Insomma, mi chiedo, dov’è finita quella signorotta ingrugnata che a Roma mi spintonava sull’autobus per salire? Qui mentre impenno sulla bici scampanellando e urlando “pistaaaa!” sul marciapiede pedonale un vecchietto si ferma e si mette di lato: “scusi signorina, non l’avevo proprio vista”. Ma si può? Dico io. Neanche un: “ma guarda sta stronzaaaa!”. Niente di niente. In scia alle mie ruote fiammanti solo l’imbarazzo di un povero vecchietto che si è sentito d’intralcio. E il mio senso di colpa che continua a pedalare, sempre più veloce.
E pedala, pedala … chissà dove arriverò. A volte mi fermo e mi chiedo: “ma cosa diavolo ci faccio qui?”. E la risposta non è sempre a portata di mano. Spesso devo ripercorrere certi stati d’animo e alcune scelte che mi hanno spinta fin qua. A quel punto sotterro la solitudine e cerco di vedere 400 km da una nuova prospettiva. Già qui, dal balcone al sesto piano sembrano meno di quello che sono. Su per giù il ponte di Calatrava dista meno di un centimetro dalla ringhiera del balcone. Esattamente un’ unghia del mio pollice, per essere precisi. Forse per arrivare a Roma me la caverei con qualche metro. Il trucco è usare il giusto scalimetro e non smettere di pedalare sapendo che ciò che realmente si vuole si può sempre raggiungere, ovunque sia.

E a pochi giorni dai miei fatidici 30 anni mi ritrovo qui a fare strane congetture su fantomatici righelli.
C’è qualcosa che non mi quadra: ho preso male le misure?